lunedì 12 dicembre 2011

OPERAZIONI: Gehry & Moss

REAZIONI ESTETICHE E RIFLESSIONI TEORICHE


DOTTORATO DI RICERCA IN ARCHITETTURA. TEORIE E PROGETTO.
Lecture: IPOTESI DI RICERCA
Data: martedì 13 dicembre 2011
Luogo: aula Fiorentino, Facoltà di Architettura, Via Gramsci 83, ROMA
Coordina: Prof. Antonino Saggio

Abstract

Los Angeles è il suolo su cui poggiano milioni di volti e milioni di tetti. Los Angeles ha poca storia ma tante interpretazioni di essa. Los Angeles è un insieme fatto da milioni di unità. Los Angeles è il luogo delle aspirazioni comuni, ma anche delle ambizioni. Los Angeles è la casa di grandi architetti e di architetti figli di grandi architetti.
Frank Owen Gehry accoglie gli opposti, non si accontenta di quello che tutti gli Angeleni desiderano, ma non lo disdegna. Una calamita, la casa a Santa Monica, ha attratto pezzi impropri appartenenti a chi si deve accontentare. Assemblare diversità.
Gehry è uno scultore della massa e dello spazio. Spaziare per tenere insieme (Loyola Law School). Fendere come frattura esplosiva (Edgamer Complex).
Gehry fa, Gehry possiede l’istinto, il resto è lasciato ai critici ed ai teorici delle sue "non teorie".
Gehry ha tanti figli a Los Angeles, uno di loro è Eric O. Moss. Parte dalla spinta innovatrice del "padre", ma ci riflette. Progetta in estasi teoriche, progetta sulle sabbie mobili dell’indeterminazione. Nega quello che afferma. Le sue opere manifestano opposizioni: ambiguità. Ma non nihilismo. I suoi progetti sono nuovi frammenti di una città dimenticata, sono la nuova Culver City.
Sfidare l’ordinarietà, sfidare le coerenza con Gehry. Giocare con la storia Moss, ma lasciare le tracce con Moss.
Leggere a livelli le architetture, incastonare una finestra che evada sempre un nuovo limite.

martedì 11 ottobre 2011

RECENSIONE

Architettura e modernità
Dal Bauhaus alla rivoluzione informatica

AUTORE: Antonino Saggio
CASA EDITRICE: Carocci

Il libro di Antonino Saggio è ecologico e tele-micro-scopico. Questo non vuol dire né che sia stampato su carta riciclata, né che alleghi, come gadget, lenti o specchi.

“Architettura e modernità” usa l’ecologia, come la usava Banham1. Ecologia quindi come disciplina che studia gli esseri viventi nello loro relazioni reciproche e nelle interazioni con l’ambiente.

Ripercorrendo in otto parti, più di ottant’anni di storia dell’Architettura, Saggio sembra individuare altrettante ecologie. Ogni opera che descrive, ogni architetto su cui si sofferma, fanno parte di un «palinsesto attivo e sempre diverso»2, definito da relazioni, non solo urbane o compositive, ma soprattutto culturali, sociologiche, geografiche, storiche ed economiche. Tantissime interazioni sono sottolineate: lo scenario più evocato è quello delle arti figurative, ma le relazioni più vivide e decise provengono dal campo della tecnica, sia essa industriale o informatica.

Solo con uno sguardo pluricentrico, che definisce vere e proprie ecologie, si può riuscire a comprendere pienamente, le spinte che ricevono gli architetti, ma soprattutto i risvolti gravidi che le loro opere portano nell’ecosistema.

Proprio questa visione ampia e dinamica è la capacità telescopica cui si faceva cenno all’inizio. L’autore guardando da una giusta distanza, riesce ad osservare i fenomeni nello loro complessità, ma anche nella loro complementarità. Descrive le (archi)star, nel rapporto reciproco, nelle riverberazioni, nella luce abbagliante che tutte insieme emanano.

Il libro però è anche intensamente microscopico. L’autore, infatti, non indaga solo la star, ma soprattutto l’uomo. La natura, la personalità, le caratteristiche peculiari dell’architetto, sono messe in luce con grande capacità di penetrazione. L’architetto finalmente diventa uomo. Si ritrova l’umanità persa dalla Storia (dell’Architettura), che sembrava fatta da soli idoli. Apparendo drammaticamente terreni, si rivelano davvero toccanti i racconti delle scomparse premature. Ci ricordano che i miti sono solo uomini, spesso anche sfortunati.

La lettura del testo è una, unitaria e scorrevole ma è al contempo trina, perché formata dall’addizione di tre momenti: la ricognizione storica generale, l’inquadramento nel contesto architettonico e l’approfondimento umano del progettista e delle sue pulsioni. Ovviamente lo sviluppo di questi tre tempi (per ottant’anni in 444 pagine), ha bisogno di spiccate capacità sintetiche, che spesso però possono fare il paio con inclinazioni alla superficialità. In Architettura e Modernità, invece, i riferimenti sono secchi e precisi, mai ridondanti. Questo crea spazio per riflessioni sintetiche e decisamente illuminanti dell’autore. L’abile comprensione dei fenomeni di ogni natura dovrebbe costituire, sempre e come in questo caso, il primo gradino della scalata progettuale.

Ultimo punto su cui soffermarci è la scelta delle immagini . Lo scopo sembra quello di mostrare nuove o dimenticate prospettive. Le immagini più potenti, sono infatti proprio quelle che ci fanno apprezzare le opere da punti di vista inediti, ritracciando il percorso associativo nella nostra memoria. Le architetture sulla carta, quelle che non è stato possibile vedere di persona, diventano tridimensionali: finalmente le possiamo girare, conosciamo i lati ed il retro. Spesso sfogliando il libro, proprio per la viziata abitudine a vederle sempre da una sola angolazione, quasi non le riconosciamo immediatamente. Suscitano però un ritrovato interesse, che ci spinge ad avvicinare il libro agli occhi per aggiungere alle cartelle della nostra memoria ogni dettaglio mai visto prima.

Questo testo ci insegna che lo sviluppo, e cioè l’avvicendarsi delle rivoluzioni, è veicolato dall’interazioni plurivoche e pluridisciplinari che si instaurano tra uomo e uomo e tra uomo e contesto. Se fossimo inoltre così abili da allontanare e da avvicinare lo sguardo, se avessimo quindi insieme la capacità del telescopio e del microscopio, potremmo comprendere lo scenario complesso ma inclusivo, da lontano, e riusciremmo ad apprezzare l’unicità e l’umanità degli uomini che lo modellano, da vicino.


A.V.

1 Con riferimento all’opera di Reyener Banham, Los Angeles. L’architettura di quattro ecologie, Giulio Einaudi editore, Torino, 2009.
2 Reyner Banham, Los Angeles. L’architettura di quattro ecologie, op. cit., p. XVII.

lunedì 5 settembre 2011

La città dei cactus volanti

CRONACA DI UNA MATTINATA A CULVER CITY


Ore 7:30 a Los Angeles, ore 18:30 a casa, occhi aperti, è inutile provare a riaddormentarsi, quindi in piedi. Caccia alle nostre ultime roommates, una colonia di formiche, decisamente più arzille di me. 
Apro la tenda ed è buio, apro la porta e fa freddo.
Mi travesto da cipolla, attraverso la balconata che dà sulla piscina, più che altro sulla pozza di 5 mq e mi infilo nella stanzetta della colazione: fermenti lattici e waffle. L’avete mai visto il distributore automatico di pastella per waffle??
“Ragazzi vi va di accompagnarmi questa mattina in una zona di Los Angeles? Si chiama Culver City, dista circa una ventina di minuti da qui (noi eravamo ad Hollywood).”
“Si Ale, ma lì cosa c’è?”
 “E’ una zona industriale, che è stata riqualificata da un architetto di Los Angeles, Eric Moss.”
Un po’ dubbiosi, ma generosi, accettano di scortarmi.
Saliamo sulla Dodge, un trattore trevestito da Goldrake e ci avviamo. Breve pitstop in un negozio di accessori per auto, grande più o meno quanto tutta Porta di Roma, scegliamo tra le venti tipologie di pasta abrasiva e ripartiamo.
Gli edifici, allontanandoci da Hollywood, quasi subito si abbassano e si allargano, le insegne  rimpiccioliscono ed al loro posto compaino pelli di mucca e divani in tappezzerie floreali, intervallati da chiassosi negozi di “Stile Italiano”.
Cinque inversioni “ad U”, un paio di semafori più rossi che arancio ed il navigatore segna solo pochi centinaia di metri all’arrivo. Non si vede niente di nuovo o di diverso. Lo spazio si dilata come se stessimo in sella al vettore di un gradiente, le finestre quasi spariscono, ed i colori sono sempre più “-astri”.
“Ale ma sei sicura che la zona sia questa??”
Sotto ansia da prestazione, mentre tentavo di trovare picchi di interesse tra un addetto ai lavori stradali e l’altro, tra un cavalcavia di una freeway e l’altro, vedo qualcosa, mi sembra un segnale.
Una fermata ferroviaria sopraelevata (Expo light rail line - Culver City station), con pensiline di onde, tutte da surfare, in lamiera forata.
Così penso: in questa landa industriale, se hanno fatto questo intervento, vuol dire che ci deve essere qualcosa, che qualcuno vorrà raggiungere!
“Dai ragazzi, ci siamo, avete visto lì?”.
Finalmente, dall’altro lato della strada, compare il primo "pezzo". Ultima inversione “ad U” e parcheggiamo Goldrake.
Il motore non è ancora spento, ma sono già atterrata sul marciapiede polveroso, ovviamente lasciando come sempre il finestrino della macchina aperto. Dopo aver risolto l’increscioso perditempo, inizio a camminare verso Beehive e Black Box.
Supero velocemente l’alveare, sicura di tornarci dopo, quindi mi arrampico sopra un griglia di protezione. Volevo toccare la scatola, avvicinarmi, ma in realtà, non essendo l’ispettore Gagdet, neanche la sfioro.

Sembra un cubo nero, in realtà i suoi spigoli sono erosi cartesianamente e disturbati da altri cubi; uno è vetrato.
I miei amici iniziano a scattarmi foto, abbarbicata lì su.
Ed io: “ Ragazzi ma che fate?? Rovinate le vostre foto e rovinate l’architettura, con me in mezzo!”
In ogni mio viaggio, io cerco solo pezzi di architettura da portare via con me, ma ovviamente è ben diverso per chi non è un morboso addetto ai lavori. Così i miei cari amici, prendevano posto anche loro nelle mie inquadrature, al centro dei miei feticisti souvenir: qualche volta, anzi spesso, li ho cacciati, ma un paio di foto ricordo mi è toccato scattargliele.
Chissà perché l’architettura viene meglio senza umanità, senza automobili, senza segnali, ma soprattutto senza uomini? Inficiamo, quasi sporchiamo, l’assolutezza delle architetture. Spesso diventano sculture cave come il cavallo di Troia. Fuori ci appaiono a tutto tondo, imperscrutabili, infallibili, divine e quindi non umane. Dentro possono ospitarci, ci avvolgono, ci fanno perdere l’orientamento, ci confondono ma al contempo riescono ad affascinarci.
Scendo e torno all’alveare, il terreno antistante è smosso, una prefazione verde al biomorfismo che si annida su costruzioni stereometriche. Unica accezione sono i setti di mattoni e la tettoia, echi dei vecchi pueblos spagnoli i primi, ineludibile cameo dei bungalow angeleni l’altra.


Sicura che i "pezzi" della mia collezione - Baudrillard sarebbe fiero di me -  non siano finiti qui, mi giro verso sinistra e vedo lei: la Gateway Art Tower.
Tecnici dalle divise fluo, ci stanno lavorando, compaiono e scompaiono, sotto e sopra, dentro.
I miei amici: “Ale che cos’è? “


Spiego loro che è una torre di informazione multimediale, in cui vengono proiettate informazioni e video di carattere pubblicitario e divulgativo. Questa, grazie alla sua altezza, superiore all'edificazione circostante, è  divenuta il fulcro visivo, figurativo e propositivo di Culver City. Possiede, inoltre, un piccolo anfiteatro che ha, come rivestimento delle pareti, una brulicante serie di teste di cugino Itt, tinte di verde.



Ancora i miei amici: “Ahh, molto particolare. E’ tutto molto particolare”.
Questa l’ho sempre voluta capire: perché i non architetti e chi non ha una formazione o una cultura di carattere artistico o figurativo, sembra conoscere solo l’aggettivo “particolare” per descrivere l’architettura. E’ paura di definirla bella o brutta, quindi è mancanza di coraggio? E' invece paura di non avere nel proprio lessico degli aggettivi adatti a descrivere specificatamente l’architettura, o ancora è perché non sanno manifestare e quindi decifrare le sensazioni che suscitano su di loro le opere di architettura? O forse le opere sono troppo grandi e tendono solo a sopraffare? Mi piacerebbe un giorno indagare la vera motivazione di questo reiterato costume.  Non crediate che io pretenda un’accorata e colta critica di ogni opera architettonica, tutt’altro. Quello che davvero vorrei è solo una densa e sfacciata descrizione, del genere: “E’arruginita, marrone e storta”.
Ed ora il pezzo forte: quella strana finestra che il Prof. Antonino Saggio ha scelto come copertina del suo libro. La domanda me l’ero già fatta a Roma: perché questa immagine? Qual è la ragione a latere di questa scelta? Perché scegliere proprio questa, tra tutto il repertorio di finestre disegnate e realizzate“dalla Bauhaus alla Rivoluzione Informatica”?


La verità è che l’esatta risposta, sta all’autore. Io mi sono solo avvicinata a capire l’emozione e la fascinazione che si provano in un luogo come questo. Qui l’architettura virtuale diventa attuale, attraverso la penetrazione e la fecondazione della architettura preesistente (reale). 
Trivida window, è un termitaio che si è generato dall’ingresso di termiti informatiche in un vecchio magazzino.


Scattiamo tante foto, e questa volta anche io me ne concedo una ricordo.
I marziani di Bradbury sono sbarcati qui, lo Stealth è ancora sporco dai gas e dalle striature lasciate dalle piccole collisioni con i meteoriti, avvenute durante il passaggio negli strati dell’atmosfera.

Potrei sempre suggerirgli dove comprare un bel pò di pasta abrasiva!




Lo costeggiamo, poi arriviamo all’imbarco. Saranno ostili? Noi siamo molto titubanti, due guardie ci osservano. Invece di procedere, indietreggiamo, attratti però da ciò che è di fronte a noi: una grande finestra su un altro mondo.




Da non crederci, un marziano spunta da dietro ed inizia a parlarmi. Mi dice di seguirlo, fa un segno alle due guardie, la nostra delegazione di umani varca la soglia marziana. Gli spazi sono ampi, quieti; ci sono sconosciute specie di vegetazione, piani inclinati e riflettenti, tetti incrociati ed un grande ombrello (The Umbrella) che è rimasto impigliato in uno spigolo. Tutto è ordinato e silenzioso, tutto è regolato, ma le strutture sono potenti e fragorose.





Culver City è l’area urbana dai mille episodi, può succedere qualunque cosa, basta voltare l’angolo.

E’ la Disneyland dell’Architettura Contemporanea, è un capolavoro tra i progetti di riqualificazione di aree industriali dismesse.
E' virtualità attuale e cartesiana fluidità.


Temo che il nostro viaggio sia finito, ma no: il maziano ci indica i cactus volanti e l’edificio che ha mangiato la balena, che ha mangiato Pinocchio.














domenica 1 maggio 2011

Introduzione e I° capitolo

PREMESSA:
Forse, l’architettura si rivolge a classi determinate: le sceglie, le studia e da loro una soluzione altamente soggettiva.
Alcune volte è furba e si impregna delle aspettative di una classe, altre volte è autoritaria ed impone sordamente un dogma abitativo.
L’Art Noveau è abitata dai nouveaux riches, i nuovi imprenditori che desiderano sfarzo e bellezza. Gli architetti ammiccano a tale richieste, tal volta in maniera frivola, altre volte con sensato equilibrio tra tecnica e decorazione (come nell'opera di Auguste Perret e di Frank Llyod Wright). Il risultato è un successo.

L’Architettura Moderna nasce, invece, per i lavoratori alienati nelle fabbriche. Norma asfitticamente la vivibilità di molti, ma pur sempre diversi gli uni dagli altri.

DOMANDA:
Le braccia sulle macchine, gli uomini quindi, sono trattati dagli architetti moderni come macchine essi stessi che devono funzionare tra le funzioni della casa? Il successo di un’ architettura è dettato dal pensiero di pochi illuminati o è invece determinato dalla vicinanza della abitazione abitata alla propria abitazione ideale?
L’ignoranza, la chiusura nella tradizione, la lontananza dal sapere non sono mai veicolo di innovazione, ma il gusto e il desiderio e talvolta anche la frivolezza sono da prendere in considerazione?